Pallone e dintorni... Daniele Orsato

Scritto il 18/04/2022
da Pino Lazzaro


“Giocavo a calcio in oratorio, difensore centrale, di testa me la cavavo. Recoaro, sono di là, era luglio 1992, m’ero appena diplomato, con quell’idea fissa di fare l’elettricista, io che già da bambino me ne andavo in giro per casa con un cacciavite in mano. Il diploma a giugno, nemmeno un mese e già avevo trovato il lavoro ed ecco che vengo a sapere che a Recoaro non fanno più la squadra, chiuso col calcio e un collega mi butta lì perché poi non provo a fare l’arbitro, almeno così continui a stare in campo, la responsabilità che hai. È stata proprio quella parola – responsabilità – che mi è rimasta dentro, mi ha fatto pensare e decidere. Lì a casa ne parlo così a mio padre, un corso arbitri lo tenevano a Vicenza e lui: ma perché così lontano, una sezione dell’AIA c’è pure a Schio, più comodo no? Dunque responsabilità, quel prendere decisioni da solo, mi ha colpito questo, lì sul campo”.

Un colpo di fulmine
“Ricordo ancora la prima volta che ci sono andato in quella sezione di Schio, era giusto uno scantinato di una scuola ma per me è stato davvero un colpo di fulmine, tutta quella carrellata di premi, le foto di Casarin e Agnolin, persino il certificato penale bisognava allegare alla domanda, m’impressionò questo particolare e subito lì quella mia domanda: quanto ci vuole per arrivare in Serie A? Così il presidente della sezione lì a spiegarmi che si comincia dagli esordienti e poi giovanissimi, juniores, dilettanti e su su, che ce ne vogliono 16 insomma di anni. L’esame di arbitro l’ho fatto poi a ottobre ’92 e ricordo ancora tutto, era il 2006, fuori a lavorare in un’industria di Valdagno e mi arriva la chiamata di Agnolin, sì, lui, un po’ come a un calciatore arrivasse, che so, la chiamata di Messi, non so se mi spiego. Così lui a dirmi che ero stato promosso in A, che mi aspettava lì per il ritiro a Sportilia, ciao ciao. Stop lavoro, per quel giorno si finiva lì, ho avvisato pure il padrone, pure lui parecchio coinvolto, tutti in trattoria, offro io”.



Le lacrime del 2005
“Tutto questo nel 2006 e non mi dimentico l’anno prima, la delusione perché non mi avevano promosso, stavolta ero in un asilo, stavo cambiando dei fili: anche allora stop col lavoro, via a casa, subito a fare un allenamento più duro del solito e per la delusione avevo deciso di dare le dimissioni, il presidente della sezione che non fa andare avanti la pratica, se le tiene lui le carte, che mi dice di provarci ancora, un altro anno, dai e quanto brava è stata ancor più in quel momento mia moglie, sì”.

La primissima?
“Certo che mi ricordo la prima partita. Esordienti, Chiampo-Zumar Tezze, campo di sabbia, lì sotto il monte. Non ho fatto altro che guardare loro, i giocatori, lì ad assistere, in tutto quattro fischi, l’inizio e la fine dei due tempi, è andata così”.

L’altra passione
“Fare l’arbitro non è che sia proprio un lavoro riconosciuto al 100%, va avanti anno dopo anno, dal primo luglio al 30 giugno e quel che conta è la graduatoria dell’AIA, se sei in fondo, hai finito. Tieni conto che bene o male, se arrivi in A, ci arrivi attorno ai trent’anni, devi per forza imparare a fare qualcosa. Io come elettricista sono stato dipendente sino al 2007, poi mi sono messo per conto mio ed è una passione che continuo comunque ad avere, mi aggiorno e studio, impianti sempre più sofisticati e se penso a un futuro, mi piacerebbe sì fare comunque l’istruttore degli arbitri”.



Come Rocky
“Col preparatore ho iniziato ad allenarmi l’ultimo anno di Serie C, prima mi sono sempre arrangiato per strada, lì a Recoaro, sera dopo sera, con la neve d’inverno, io che arrivavo a quella casa o sino a quella pianta e il giorno dopo cercavo/volevo arrivare un po’ più in là, ancora e ancora. Anche al buio, la gente che lampeggiava e mi salutava, qualche cane che mi spaventava e quando lo racconto ai figli penso un po’ ai film di Rocky, era un po’ quella l’idea. Adesso? Adesso ancora di più, cerco di tirare sempre, ora con me ci sono ragazzi di 26-27 anni, ma sono l’ultimo a mollare… ne ho 45 di anni, pioggia o vento, non ne salto uno di allenamento. E sapessi la soddisfazione, lì a Recoaro, quando vedo quei tre giovani arbitri che abbiamo che corrono per le strade, come facevo io un tempo, i sacrifici che si devono per forza fare per cercare di arrivare, nessuno regala niente”.

Settimana-tipo
“La designazione ci arriva il mercoledì pomeriggio e tenendo la domenica come giorno della gara, ecco che il lunedì è dedicato allo scarico, cyclette o corsa leggera. Al martedì si guarda più alla velocità, ripetute sui 30-40-50 metri; il mercoledì lo riservo alla resistenza aerobica e il giovedì è un po’ come il lunedì, giusto dello scarico. Il venerdì s’inizia a preparare la partita, lavoro ancora atletico: rapidità, allunghi, cambi di direzione. Di solito tutte sedute che facciamo durante la pausa pranzo, grosso modo da mezzogiorno e mezzo alle 14 e c’è pure da dire che appena ricevuta la designazione, ci arrivano i files delle squadre, col colloquio con il match analyst: come giocano, il fuorigioco, i blocchi sui calci da fermo, come battono i calci d’angolo eccetera, per essere insomma preparati”.



Musica e Al Pacino
“Il prima delle partite è dedicato alla “mia” squadra, prepararci assieme, arrivare ad avere la stessa… faccia. La mia abitudine è di ascoltare della musica, i Dire Straits e poi sempre il discorso motivazionale di Al Pacino di “Ogni maledetta domenica”, ce l’ho sul telefonino. Un qualcosa che so e sappiamo a memoria, io sono pronto e loro con me e questo è tutto, niente scaramanzie, niente. Aggiungo che quel che davvero mi impegna è il prima della partita, il tempo che ti ci vuole per arrivarci, del tempo che tutto sommato per me è tempo perso, mi piacerebbe giusto andar lì e subito cominciare, sì, è giusto in mezzo al campo che io mi trovo bene”.

Con voce e senza
“Lo dicono in tanti, è vero, ma per me questo fatto che all’estero sia più facile arbitrare non mi trova d’accordo. L’unica differenza che trovo è la confidenza che puoi non avere nel parlare con i calciatori, dai e dai nel nostro campionato le squadre sono sempre quelle, i calciatori li conosciamo, protestano certo ma poi quando finisce, finisce. Ecco, l’unica differenza è che qui in Italia finisco la partita e sono senza voce, all’estero ce l’ho ancora. E comunque, ai raduni della FIFA, parlando con gli altri arbitri, tutti a dirmi che è così anche per loro, un po’ dappertutto insomma è uguale”.



Sudditanza psicologica?
“Io trovo che il rapporto con i calciatori sta davvero migliorando, parecchio. Loro ci conoscono bene, sanno chi siamo, appena qualche minuto e subito capiscono che giornata abbiamo, quale la predisposizione di quel giorno, basta poco. A me pare che specie con gli arbitri giovani vada meglio e quel che mi auguro è che si accetti di più l’errore, che è giusto un errore, purtroppo ci sta: io proprio non la concepisco sta cosa della sudditanza psicologica, proprio no. Il fatto è che siamo sulla stessa barca, capitano sì le proteste, il contesto, anche degli allenatori, ma poi cala l’adrenalina, le cose sfumano”.

Spettatore non pagante
“Certo che mi gusto qualche giocata, pure io resto sorpreso da quel che vedo in campo. Ok, finale di Champions League, lì con Mappè, Neymar, Di Maria, lì pure io a chiedermi dove l’avessero fatto sparire il pallone. Uno spettatore non pagante, ecco quello che mi sento, con giocatori poi con cui è più facile arbitrare, se un fallo è da giallo sono loro i primi a dire ok. In genere do del lei ai calciatori, mi viene così e negli ultimi anni rivado a Zanetti, lui che era davvero un esempio, a lui proprio non mi veniva di dare del lei e il massimo, la partita ideale, sarebbe quella di averne 22 di Zanetti in campo, io che quando gli dicevo che non ce la facevo più a sopportare, sempre mi rispondeva di non preoccuparmi, di stare tranquillo, “vai avanti col tuo lavoro”.



Manca il Camp Nou
“In Italia sono stato dappertutto, parecchio anche in Europa e uno stadio che ancora mi manca, lì ci sono stato solo come addizionale, è quello del Barcellona. Se la sento la gente? E come si fa a isolarsi? Impossibile, le orecchie sentono e poi il boato, magari la stessa marea di fischi che ti possono arrivare, è un qualcosa che carica e non posso non pensare a questi due anni di Covid, a quanto sia mancata pure a noi arbitri la gente”.

Partite che non dimentico
“La partita che non dimentico? Facile, dai, la finale di Champions. Mai avrei pensato e ricordo così la videochiamata di Rosetti, lui che mi chiede come sto, avevo appena finito di allenarmi e mi dice che ci vediamo a Lisbona. Lì, mi sono seduto sul letto, mi sono messo a piangere ed è arrivato mio figlio più grande, ha subito intuito della Champions, poi l’altro mio figlio, gli abbracci. E poi rivado all’esordio in A, a Siena, mio padre lì in tribuna, con assieme non so quanti della sezione di Schio, mio padre con un fazzoletto in mano, in lacrime, lui che mi ha sempre seguito, non c’era Google Maps, tutte le cartine che abbiamo comprato, era lui a fare un po’ d’agenzia di viaggi”.



A scuola d’inglese
“Un tempo leggevo i giornali, andavo subito a leggere le pagelle. Ora non più, non m’interessa né un 8 né un 4. Capita anche a noi quel che capita ai calciatori, magari sono i primi che sanno perché vengono sostituiti e c’è allora per noi a fine partita sempre il colloquio con l’osservatore che ci dice la sua “pagella” e noi già le sappiamo le cose che andrà a dirci. A livello internazionale la lingua è l’inglese. Ero proprio un asino e così dal 2009 mi sono messo a studiare, lì a Recoaro, un nord irlandese, madrelingua, per due anni è stato in pratica come andare a scuola”.

Tutto nell’hard disk
“Se sto dietro alle presenze? Certo che sì. A oggi (8 aprile) sono 257 in Serie A, 41 in Champions League, 22 in Europa League e 43 in Serie B, più tutte le altre internazionali, Coppa Italia eccetera. Penso di essere oltre le 700 partite arbitrate e guarda che tutte, proprio tutte, sin dalla prima quel giorno nel campo di sabbia lì a Chiampo, le ho sul computer. Prima usavo dei foglietti, trascrivevo i rilievi dell’osservatore, col computer poi li ho tutti archiviati, sono lì dentro. In classifica sono 4° per ora in A, davanti a me ci sono Jonni, Rocchi e Lo Bello, credo l’irraggiungibile, lui è a 330, forse se arrivo ad arbitrare sino a 50 anni...”.



La mano di Henry
“La VAR? Per come la vedo io, è un miglioramento, sono contento che ci sia, ho modo così di andare in campo con ancora maggiore sicurezza. Errori se ne fanno sempre e sempre se ne faranno, però con la Var si possono limitare gli errori più grandi e guarda che tutto è partito da quel gol di mano di Henry in Francia-Irlanda, c’era Trapattoni, è da lì arriva la VAR”.  

Premio, con dedica
“Per un arbitro ricevere questo premio ed essere giudicato da giocatori, allenatori e colleghi è la soddisfazione massima, posso solo ringraziare tutti quelli che mi hanno votato. Cercherò, nonostante l’età visto che sono il più vecchio in organico, di dare sempre il massimo che mi viene richiesto e, se posso in parte, essere un consigliere per gli arbitri più giovani per la loro crescita. Dedico questo mio secondo premio alla mia famiglia perché, in tutto e per tutto, sono sempre al mio fianco e ancora oggi mi supportano: senza famiglia, per me, non s’arriva a niente”.



Classe 1975, vicentino di Recoaro, Daniele Orsato (sezione Aia di Schio) è entrato a far parte della Can C nel 2001 e dal 2006 della Can A-B. Internazionale dal 2012, fa parte da luglio 2015 della categoria Élite degli arbitri Uefa. Arbitro in attività col maggior numero di partite arbitrate in serie A, nel 2020 ha diretto la finale di Champions League tra Paris St. Germain e Bayern Monaco e sempre per l’annata 2020 è stato eletto miglior arbitro del mondo. Al Gran Galà del Calcio AIC per la stagione 2020/2021, si è aggiudicato il premio riservato agli arbitri (è il suo secondo consecutivo). Sposato, due figli, abbina l’attività arbitrale con quella di imprenditore artigiano (nel comparto elettrico).