Gigi Riva - Mi chiamavano Rombo di Tuono

Scritto il 28/02/2023
da Pino Lazzaro

 Biblioteca AIC 



Dall'altro secolo
Vado per gli ottanta. Mi viene in mente sempre più spesso, a tradimento, e continua a sembrarmi inverosimile. Ma come? Ci sono arrivato ieri qui a Cagliari, con mia sorella Fausta ad accompagnarmi, a farmi da madre, da tutor, a me che non ero mai uscito dalla provincia di Varese, altro che Lombardia.
“Però lo sai, Gigi, io tra un po’ torno su perché mi devo sposare”. E lì il tentativo, forse un po’ patetico, di fare il duro: “Guarda che è Paolo che dev’essere d’accordo, mica io”.
Vabbè, mettiamo che fosse l’altro ieri, ma non quasi sessant’anni fa, è questo che è inverosimile. Perché l’ultima partita l’ho giocata che non ne avevo trentadue, e sarà anche vero che dura un attimo la gloria ma poi bisogna accontentarsi dei ricordi. Al mondo continuo a starci bene, tra alti e bassi, come credo capiti a tutti.



(pag. 17) Gli raccontai (a Gianni Mura) come fosse insopportabile il peso, ‘l’umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo’. Il cantare ai funerali anche tre volte al giorno, il dover sempre dire “Grazie signora, grazie signore” a chi portava il pane, i vestiti usati… (ricordi degli anni negli orfanotrofi)

(pag. 20) Avevo incominciato nel campo della parrocchia di San Primo, a cinquanta metri da casa. Attraversavo la strada e giocavo: se c’erano gli altri bene, sennò da solo.

(pag. 22) Invitò l’intero paese (la mamma) a vedere che cosa le aveva regalato suo figlio (un televisore), compresa quell’unica antenna che svettava sui tetti dei dintorni e a lei sembrava toccasse il cielo. Nemmeno le avessi regalato una villa sarebbe stata così contenta.

(pag. 23) Adesso che l’ho vissuta tutta o quasi tutta lo posso dire: mamma Edis è stata la persona più importante della mia vita.

(pag. 26) Il mio posto di lavoro era un tornio di meccanica, la specializzazione le bottoniere da ascensore. Quante ne ho fabbricate, quante ne ho montate. E per quanto tempo ho odiato gli ascensori ogni volta che ci salivo.



(pag. 37) L’ho sempre detto e lo ripeto qui di mio pugno: a Cagliari sbarcai con l’idea fissa di chiedere scusa a tutti e di tornarmene a casa il prima possibile.

(pag. 43) In aereo, tornando (vittoria a Udine: prima e storica promozione in A del Cagliari), mi dissi che forse – il forse è sempre stato più forte di me, anche nei momenti belli – per la prima volta in vita mia ero davvero felice.

(pag. 64) Con la dittatura di allora non era facile disturbare le squadre di Milano e Torino. Fuori casa ricordo arbitraggi pazzeschi, dissi più volte che per avere un rigore dovevi portare un certificato medico.

(pag. 69) La mia prima Sardegna, quella che mi è rimasta nel cuore e mi ha fatto diventare in breve tempo più sardo dei sardi, è stata quella delle barche dei pescatori, non degli yacht. Dei pascoli e delle grotte, non delle ville miliardarie.



(pag. 87) Fu un’emozione terribile (esordio nella Nazionale maggiore), non riuscivo neppure ad allacciarmi le scarpe… quando la palla era lontana, continuavo a guardarmi la maglia, tutto quell’azzurro, e continuava a non sembrarmi vero.

(pag. 113) Ho detto un sacco di no in vita mia. Ma proprio tanti. Tra il sì e il no, la mia natura mi guidava istintivamente verso il no. In più c’è stata anche qualche rara volta che un sì non molto convinto è diventato un no. Mentre un no non è mai cambiato in sì.

(pag. 122) Il gol per me era tutto. Se era bello o magari bellissimo tanto meglio. Ma andava bene anche da un metro, casuale, fortunoso. Mi dava una scarica nervosa incontrollabile, e poi per quella settimana ero tranquillo.

(pag. 127) Tutti non li ricordo (i gol fatti), ma se vedo partire un filmato con la palla ancora a metà campo potrei stoppare l’immagine e raccontare esattamente come andò a finire.



(pag. 134) Le punizioni a fine allenamento erano davvero il mio pane. Avrei fatto notte ogni volta. Quindici palloni poco oltre il limite dell’area, e cominciava il fuoco di fila. La porta la prendevo spesso.

(pag. 142) È stato il marcatore più forte (Burgnich), più concreto, più duro che io abbia mai affrontato. Ma duro tanto, ogni volta mi picchiava senza fare sconti. E a mia volta un paio di denti ricordo di averglieli tirati giù.

(pag. 178) Ma quando sono uscito per sempre dal campo… ho dovuto cominciare a fare i conti, fino a lì sempre rimandati, con quella parola. Depressione. Che fatico persino a pronunciare, perché significa farmi del male.

(pag. 181) Il vantaggio di aver conservato poche cose è che quando le cerco so dove mettere le mani.



Gigi Riva con Gigi Garanzini
MI CHIAMAVANO ROMBO DI TUONO
Rizzoli



Classe 1944, da Leggiuno (VA), Campione d’Europa nel 1968 e vicecampione del Mondo nel 1970 con la Nazionale – dove detiene il record di marcature (35 in 42 presenze) – Gigi Riva ha esordito nel Legnano (C), per poi legare la propria carriera al Cagliari con cui ha vinto lo scudetto nella stagione 1969-70, aggiudicandosi pure nel 66/67 (18 gol), 68/69 (20) e 69/70 (21) la classifica marcatori. Dal 1987 al 2013 è stato dirigente della Nazionale.
▪ Giornalista e scrittore, in queste ultime stagioni collaboratore de “La Stampa”, Gigi Garanzini ha condotto anche diverse trasmissioni tv e radio, fra cui Il processo del lunedì (Rai 3) e A tempo di sport (Radio 24). Fra i suoi libri, Il romanzo del vecio (Baldini), Nereo Rocco (Baldini), E continuano a chiamarlo calcio (Mondadori) e Il minuto di silenzio (Mondadori).