La guerra in Ucraina, il racconto di Paolo Bianco

Scritto il 28/02/2022
da Claudio Sottile

16:00 e 17:58 italiane del 26 febbraio 2022. Paolo Bianco, assistente tecnico di mister Roberto De Zerbi allo Shakhtar Donetsk, risponde due volte al telefono da un sotterraneo dell’Opera Hotel di Kiev. Nel mezzo, la tessitura della diplomazia alla ricerca di un convoglio per scappare dalla trincea. Lo sguardo è di chi dorme con un orecchio ai colpi di artiglieria e un occhio alle ultim’ora dei media di tutto il mondo.


“Ci siamo trovati in una situazione più grossa di noi, che nessuno mai credeva potesse capitarci. Siamo tornati dal ritiro invernale in Turchia sabato 19 febbraio, per riprendere il campionato il 26, una settimana dopo. I sentori c’erano, però dal punto di vista della Federazione calcistica dell’Ucraina non c’erano i presupposti per uno scenario del genere. Mercoledì sera, il 23, eravamo in riunione nell’albergo dove ora siamo accampati, per discutere con la società perché sembrava che gli eventi stessero per precipitare e che la Federazione desse lo stop alle competizioni. Andiamo a dormire e all’alba successiva, verso le 5 ora locale (l’Ucraina rispetto a noi è avanti di un’ora, ndr), le esplosioni ci svegliano. Disastro. Siamo scappati da casa con niente addosso, e siamo venuti nell’albergo in pieno centro a Kiev di proprietà di Rinat Achmetov, il presidente dello Shakhtar. Ci hanno messi in una specie di sotterraneo, è un posto sicuro anche se a soli 2 km da Piazza Maidan, il cuore del potere. Qui con noi ci sono i ragazzi dell’OCSE, dell’ONU, della CNN e della BBC, che ci rassicurano, ma ci mettono in guardia sui rumori, sono veramente forti. Al suono dei combattimenti non si è preparati. Ieri sera ci avevano preannunciato una notte tosta di scontri, perché l’esercito ucraino nessuno pensava che avrebbe resistito così tanto. Vladimir Putin ha praticamente preso l’Ucraina in mezza giornata, ma in due giorni non riesce a conquistare Kiev”.



Il contesto
“Nell’hotel siamo rimasti noi dello staff di Roberto De Zerbi, e fino a oggi pomeriggio anche i calciatori brasiliani con mogli e bimbi piccoli, genitori e suoceri. 39 persone in tutto, che alle ore 17 sono partite con un mezzo speciale direzione Romania, grazie all’intermediazione della Federazione locale. Sono contento per loro perché c’erano neonati di mesi che dormivano per terra, mamme che piangevano disperate. Quando sono andati via c’è stato un forte momento di commozione. Gli altri ospiti della struttura sono qui per il conflitto, come la stampa e il personale delle organizzazioni internazionali. Stiamo provando a capire come e quando partire anche noi. Siamo in contatto con console e ambasciata tre-quattro volte al giorno, ma hanno difficoltà perché gli italiani da evacuare sono tanti. Non abbiamo priorità, noi siamo un po’ dei tanti”.

La guerriglia
“Non siamo in camera, ci troviamo in un piano interrato, dormiamo su materassi adagiati sul pavimento. Stanotte il sindaco di Kiev Vladimir Klitschko aveva diffuso un comunicato che preannunciava fuoco aereo, alle 5 e 30 qualcosa abbiamo sentito. I giornalisti dovevano uscire per il racconto e non lo hanno fatto dopo questa allerta. Soprattutto per la notte ci dicono di non sistemarci accanto alle finestre, e di metterci sotto delle coperte, preparandoci al peggio. Se i russi arrivano ai palazzi governativi, e noi siamo a pochi isolati, sparerebbero anche nelle vie limitrofe e quindi qui davanti. I rumori sarebbero fortissimi. Ieri ci avevano detto che sarebbero saltate le comunicazioni, le linee telefoniche e la corrente, per fortuna non è ancora successo. Hanno attaccato una centrale elettrica, però stiamo riuscendo ad avere tutto”.



La paura
“È passata anche quella. Nei primi giorni, alle prime bombe quando ero a casa, ne avevo tantissima. È brutto perché ci fai l’abitudine, è una roba assurda, non provo più l’emozione di paura, angoscia o ansia. Ho un po’ di speranza, quella c’è, non deve mancare. Anche se quando ci dicono di tenerci pronti perché sono imminenti i boati, l’attesa non è bella”.

Il confronto con i reporter
“Anche per loro è tutto inconcepibile. Pensavano che ieri sera i russi avrebbero conquistato Kiev. Invece vuoi perché col fiume Dnepr di mezzo gli ucraini fanno saltare i ponti e fai fatica ad arrivare, vuoi perché per fortuna i russi non sono così folli da buttare giù tutti i palazzi della città coi caccia, ci vuole più tempo”.

La vita sotto il livello della strada
“Non ci manca niente, mangiamo anche più volte al giorno. Alcuni alberghi importanti mandano fuori le persone perché hanno finito le scorte. Il nostro chef, italiano, ha detto che abbiamo frutta e verdura per 15 giorni, carne, 150 kg di pasta, pane in abbondanza, al pari dell’acqua. Ma se le cose precipitano arriverà altra gente qui da ospitare e in previsione dobbiamo stivare delle derrate per loro”.

Lo scenario di fuga
“Adesso hanno anticipato il coprifuoco di due ore, alle ore 17, quindi o hai una scorta o stai al chiuso. Diventa difficile così. Abbiamo quattro macchine e siamo in 12. Abbiamo discusso col console sulla possibilità di trovarci una scorta. Tutto sta nel lasciare la capitale, fuori da lì possiamo andare da soli. Qui il problema sta diventando grande. Gli ucraini non si arrendono, anche i civili stanno combattendo”.



Gli occhi urlano
“Sono stanco, stanco, stanco. Abbiamo bisogno di buttare fuori le parole. Adesso è necessario parlare e portare la voce di questo popolo, che in questo momento non ha tanto potere per poterlo fare”.

Nel pallone
“Qui è difficile fare calcio in futuro, almeno per noi. È tanto quello che la guerra ti ha lasciato dentro. La società ha sempre avuto il culto dei brasiliani, ora ne ha 13, ma nessuno di loro tornerà. Magari tra due giorni cambia tutto e ripartiamo più forti di prima, al momento la vedo veramente dura, è complicato. Lo Shakhtar Donetsk, ricordiamolo, è dal 2014 che gioca lontano dalle mura amiche a causa della guerra del Donbass. Come dicono qui spokijno, calma, poi valutiamo che succede tra qualche mese. Al momento il calcio è l’ultimo dei nostri pensieri”.

A testa alta
“Siamo uomini di sport, siamo ancora qui proprio per questo motivo. Potevamo andare via prima, ma fin quando la Federazione ucraina non ha sospeso il campionato non ce la siamo sentita di lasciare la squadra. L’ambasciata ci aveva chiesto di lasciare il Paese, ma il campionato non era sospeso. La Farnesina ha ovviamente una responsabilità più grossa della nostra, ci avevano detto di andar via, ma noi mettiamo la faccia con i nostri giocatori, non potevamo abbandonarli. Devi essere coerente. Se avessimo previsto un’evoluzione del genere saremmo partiti. Adesso vogliamo tornare a casa”.



Si poteva evitare
“La Federazione ha sospeso il campionato dopo sette ore dalle prime bombe. Noi, il pomeriggio del giorno prima del raid iniziale, abbiamo svolto regolarmente l’allenamento. Fino al 19 febbraio eravamo ad Antalya, tutte le squadre ucraine stavano in Turchia per il richiamo di preparazione, potevamo magari provare a finire il campionato da quelle parti”.

I nostri nonni
“Poco fa scherzavo con i miei colleghi sul fatto che ci dicevano che le nostre generazioni non avessero affrontato pandemia e guerra, io ora me le sono fatte entrambe, sarebbe stato impossibile due anni fa prevedere quello che poi ho vissuto (sorride, ndr)”.

C’era un ragazzo che come me
“Da uomo posso solo dire che in questi pochi mesi ho conosciuto gente con dignità, orgoglio e senso di appartenenza. Prima di questa guerra, stavano avendo gloria a livello economico e commerciale. Il mio pensiero va a loro. È un popolo nuovo, indipendente da 30 anni, con dei valori che noi italiani abbiamo un po’ scordato. Lo sta provando resistendo contro l’armata russa, non contro un esercito qualsiasi. Non mollano. Il presidente Volodymyr Zelensky sta dimostrando di essere un vero patriota. Sono affezionato e vicino a questo popolo. Un altro pensiero è ai nostri colleghi e collaboratori ucraini che lavorano nel club, ammassati nei bunker, perché agli uomini dai 18 ai 60 anni portano il fucile a casa e devi andare per strada. A combattere”.



Il 27 febbraio, Paolo Bianco e tutto il gruppo di lavoro di Roberto De Zerbi, attraverso un passaggio sicuro, ha lasciato l’Ucraina in treno. L’indomani, alle 03:50 del mattino, il messaggio WhatsApp che sa di liberazione: “Stiamo entrando in Ungheria adesso”. Il rientro in Italia è previsto nelle prossime ore.